“Metaversi. Dietro le Quinte” la nuova rubrica di Antenna Radio Esse in collaborazione con i Teatri di Siena che da spazio a tutto ciò che gira intorno al teatro e alla costruzione di una stagione teatrale.
Dopo la Biglietteria, questa settimana siamo a tu per tu con Elena Bucci e Marco Sgrosso, i protagonisti di “Risate di Gioia. Storie di Gente di Teatro” in scena al Teatro dei Rinnovati di Siena il 12 – 13 – 14 Gennaio.
Di cosa parla lo spettacolo?
E. Tanti anni fa, dopo dieci anni di lavoro con Leo de Berardinis e dopo avere avuto la fortuna di recitare nei più prestigiosi teatri d’Italia, tornai nel paese dove sono nata, in Romagna. Con Marco Sgrosso e un gruppo sempre più grande di persone di tutte le età, abbiamo realizzato spettacoli in palazzi e chiese abbandonati, case di campagna, rivali di fiumi, teatrini parrocchiali, fino ad entrare nel teatro comunale chiuso da vent’anni.
E’ cominciata una straordinaria avventura che ha portato alla riapertura del teatro, che ora è vivo e sempre pieno. Non ne abbiamo la gestione, ma possiamo realizzare lì prove e spettacoli.
Durante la pausa dovuta alla pandemia, ho pensato spesso a quando rientrai in quel teatro dove da bambina avevo recitato per la prima volta. Sognai di ritrovare tante artiste e artisti di teatro che avevano il desiderio di raccontare la loro storia, spesso tanto in fretta dimenticata.
Tutta quella gente di teatro raccontava vite meravigliose, coraggiose, fortunate o tragiche, ma sempre affascinanti e piene di passione e di coraggio.
Abbiamo deciso di trarre dal mio sogno uno spettacolo e abbiamo inventato due personaggi ispirati al film Risate di gioia di Monicelli, bellissimo e disertato al botteghino e che aveva come protagonisti i giganteschi Anna Magnani e Totò, nella parte di due attori senza fortuna, ma pieni di passione che passano insieme la notte di Capodanno.
I due entrano in un teatro abbandonato, ma non disabitato. Trovano i loro antenati, gli stregati dal teatro che raccontano di come fu il salto dal teatro ottocentesco al varietà, al cinema e alla televisione.
Lo spettacolo si inserisce in un percorso dedicato agli artisti di teatro che ci ha portato a studiare e fare rivivere la commedia dell’arte, attraverso le figure di Isabella e Francesco Andreini in La pazzia di Isabella, Eleonora Duse in Non sentire il male, Laura Betti in Bimba, l’importante attore viennese immaginato da Bernhard in A colpi d’ascia.
Mi è sembrato necessario raccontare la storia della gente di teatro dal punto di vista di chi la vive, per completare così un quadro spesso delineato soltanto da alcuni studiosi. Sentivo che era decisivo rinnovare il legame con il pubblico avvicinandolo al teatro anche attraverso una maggiore conoscenza del nostro mestiere e di quel misterioso processo quasi alchemico che porta allo speciale magnetismo che si respira quando tutto, in uno spettacolo, va come deve andare. Si è come portati altrove e sempre di più dentro se stessi, ma non in solitudine, insieme.
M. Verso la fine del nostro spettacolo, citiamo un pensiero terribile del grande Totò, comico inarrivabile eppure uomo spaventosamente malinconico: Vorrei soltanto dire ‘grazie’ a chi, prima di me, ha vissuto questa meravigliosa ‘malattia’ e ha lasciato un solco in cui mi è possibile sprofondare, con la consapevolezza o anche soltanto con l’immaginazione.
C’è una curiosità o un momento dello spettacolo a cui siete particolarmente “affezionati”?
E. A me piace ogni momento di questo spettacolo, ma vivo con molta intensità l’inizio e la fine, quando mi pare di rivedere il teatro che abbiamo riaperto con tanta fatica e tanta gioia. E’ quel teatro, ma è anche tutti i luoghi d’arte e di cultura dimenticati, tutta l’eredità meravigliosa di bellezza che abbiamo avuto dagli avi e che spesso viene trascurata. Mi sembra di rinnovare il patto entusiasmante che lega gli artisti ai luoghi e alla vita della gente: quell’impegno a risvegliare la memoria di tutti, a mettere in luca la bellezza, a trasformare le ferite della storia e delle vite in occasioni, rivelazioni, speranza che ci fa sentire tutti vicini e non in guerra.
Anche il finale mi piace tanto. Umberto e Tortorella vengono rapiti in volo dalla mongolfiera guidata dagli antenati, nonostante la loro sfortunata carriera. Il loro amore per quello che fanno li trasporta e gli fa trovare il loro posto preciso e unico nella grande famiglia degli artisti, dove tutti possono trovare il loro ruolo e il loro compito insostituibile.
M. non saprei dire di “un momento” al quale sono più affezionato di un altro, perché lo spettacolo si dipana come una catena in cui ogni anello è necessario al successivo e dipende dal precedente e questo anche se non esiste una successione “logica”, ma più che altro “emotiva” nella costruzione della drammaturgia. Amo molto l’inizio perché apre le porte al viaggio e mi riporta alla potente emozione che mi colse quando entrai per la prima volta nel teatro sventrato di Russi, in Romagna, il paese in cui è nata Elena e dove è cominciata la storia della nostra Compagnia…quel teatro per la cui riapertura al pubblico abbiamo lottato con l’entusiasmo e la determinazione della giovinezza: lo rivedo mentre recitiamo e per me è come un abbraccio del passato al presente e al futuro.
Perché è importante fare teatro?
E. Credo di avere già detto, tra le righe, perché mi pare così importante e vitale fare teatro e fare arte, perché è un diritto di tutti gli esseri umani, perché moltiplica i punti di vista, allarga lo sguardo, fa comprendere le differenze di ognuno e le fa amare, perché disinnesca la paura e la chiusura e ci rende sorelle e fratelli, con le stesse inquietudini e le stesse speranze, tutti affamati di sogni.
In questo momento storico di guerra e smarrimento, nel quale pare di non riuscire ad arrestare il processo di autodistruzione, trovarmi in questo meraviglioso teatro di Siena, situato nel cuore pulsante della città, mi fa ritrovare la gioia, mi fa ricordare quanto sia vitale ascoltare il respiro della storia, di tutti coloro che ci hanno preceduto, di coloro che verranno dopo, con la ferma intenzione di tenere accesa la fiamma della speranza, della qualità, della bellezza, anche quando il vento è forte e sembra diventare piccola e debole.
In teatro vivi e morti si trovano finalmente accanto e possono consolarsi. Artisti del passato continuano a fare rivivere visioni e parole che ci insegnano e ci illuminano.
La sala del teatro, nella potenza del suo abbraccio, testimonia di quanto sia importante dedicare tempo, vita, cuore e testa all’inutile bellezza, alla poesia, all’arte dal vivo. Il teatro e le arti ci aiutano a non dare nulla per scontato, a stupirci ogni giorno, come i bambini, della meraviglia della vita e del talento, cose che sono di tutti e di nessuno, ma delle quali tutti, quando siamo insieme, godiamo e comprendiamo con una naturalezza che, anche nei momenti più tristi, apre il cuore.
M. Il Teatro esige l’anima di chi lo fa: fatica, passione e dedizione. E’ l’arte dell’uomo davanti all’uomo: un canale diretto che veicola i pensieri e le emozioni. Può permettersi di essere sovversivo, magico, rivelatore e rivoluzionario senza spargimento di sangue. Perché il teatro è, per sua natura e per sua esigenza, necessario e “democratico”.
Non tollera la menzogna anche se potrebbe sembrare il contrario in quanto è anche il regno della finzione. Ma, volenti o nolenti, e che sia riconosciuto o meno, il teatro non mente: parla diritto al pubblico e lo spettatore attento, vivo, accorto coglie immediatamente la menzogna o la verità di ciò che accade e fiorisce, all’improvviso, sotto i suoi propri occhi. Il “sistema” del teatro può essere tremendo, ingiusto, insano corrotto e bugiardo come tanti altri settori dell’attività umana, ma non “il teatro”, che invece svela e rivela, a dispetto della sua apparenza falsa e illusoria. In teatro un’attrice senza natali illustri e senza protezione brilla come una regina, così come una diva acclamata magari può venire travolta irreparabilmente dalla sua inadeguatezza.