Il drappellone realizzato per il Palio del prossimo 2 luglio, corso in onore della Madonna di Provenzano e dedicato al 75° anniversario del Comitato Amici del Palio, porta la firma di Emma Sergeant. L’opera presentata ieri pomeriggio nel Cortile del Podestà di Palazzo Pubblico è un elegante lavoro figurativo, in cui l’abile tratteggio a gouche, esalta la rappresentazione dando vita a quel connubio tra sacro e profano che il Palio di Siena è in grado di creare. Di grande impatto visivo la testa di un cavallo che domina tutta la parte centrale. Il vero e unico protagonista della Festa senese. Sprigiona bellezza. Forza.
In alto, sulla destra, la riproposizione di un momento della corsa. Come in un fotogramma: due contrade sull’anello di tufo con sullo sfondo il Palazzo comunale. Dalla parte opposta il volto della Vergine nel quale ritrovare i lineamenti dell’artista inglese. Nella Madonna dipinta dalla Sergeant si può così vedere la santissima madre di Gesù e la donna della nostra contemporaneità. Un’iconografia mariana che attinge e trova ispirazione dalla realtà. Un armonico quanto intenso valzer di segni: talvolta più intensi e profondi, creati da una mano decisa, a volte più sfumati, quasi soffiati, che la avvolgono in una dimensione spirituale.
In basso il bestiario delle 10 Contrade che partecipano alla Carriera.
Nel drappellone della pittrice inglese il cromatismo è estremamente ridotto. A dominare è il nero, con le sue sfumature e l’arancio che satura, con un effetto tipo spugnatura, gli spazi lasciati vuoti dalle figure. Un colore caldo usato come fonte di luce per far emergere il racconto icastico della corsa e della storia.
Una scelta forte, quella di usare solo due colori, ma perfetta per spinge lo sguardo dello spettatore all’estremo. Lo costringe ad interrogarsi sul perché. Lo costringe a innescare un dialogo sensoriale con l’artista. Tante le possibili “letture”.
Forse anche quella di connotare l’opera di atemporalità. Un po’ come guardare un’antica lastra fotografica. Il cromatismo si sprigiona dal ricordo e dalla memoria. Emerge direttamente dal cuore. Il lavoro donato da Emma Sergeant alla città di Siena è sicuramente originale e unico, caratterizzato da una cifra stilistica di altissimo livello. Tratto elegante e tinte decise. Come il carattere dei senesi.
Del resto il nero è associato al potere, al controllo, al mistero. E Siena, da secoli, ha fatto di tutto, riuscendoci, per mantenere vivo il suo Palio con azioni innovative che hanno permesso di “adattarlo” alla modernità senza snaturarlo. Come i senesi ci siano riusciti è tuttora un mistero, forse è per l’entusiasmo e l’energia, tradotti proprio dal colore arancione, con i quali hanno difeso una tradizione fatta di amore e passione.
La Sergeant ha avuto modo di conoscere Siena, ben rappresentata, infatti, sul drappo anche con i tre grandi stemmi dei Terzi (Terzo di Camollia, Terzo di Città e Terzo di S. Martino), l’antica suddivisione della città, come a rimarcare il forte senso di appartenenza dei suoi cittadini. Una peculiarità sempre più diluita in molte altre realtà, così come le tradizioni, contenitori naturali e non artificiosi dei valori che una comunità riesce a trasmettere alle generazioni successive.
DANTE MORTET HA CREATO IL MASGALANO PER I PALII 2022
E’ di Dante Mortet, il Masgalano che andrà in premio alla migliore comparsa, che si distinguerà per eleganza e dignità di portamento e coordinazione, durante la sfilata nel Corteo Storico in occasione dei Palii del 2022.
Mortet, scultore e cesellatore, ha interpretato, con grande ironia, l’anima goliardica che, quest’anno, veste il premio offerto dall’Associazione Culturale Feriae Matricularum Senensium. Quel tradizionale spirito tipico del mondo universitario, in cui alla necessità dello studio si accompagnano il piacere della compagnia e del divertimento tra studenti, si materializza così in questo ambito riconoscimento paliesco.
Ed è proprio la mano, l’elemento scultoreo più amato da Mortet. Tante le mani celebri realizzate nella sua bottega di Roma. Da quella di Ennio Morricone a quella di Quentin Tarantino, Robert De Niro, Kirk Douglas. Il motivo di questa passione? Perché è con le mani che si crea la bellezza, soprattutto quella che nasce dall’estro creativo di un grande artista come Mortet, erede di un antico sapere artigiano. E sempre con le mani si comunica, non solo attraverso un’opera, ma anche con un gesto, una carezza, una stretta di mano, appunto. Ecco quindi che la sua firma stilistica si ritrova appieno in questo Masgalano. In quella bellissima mano in bronzo, placcata in argento, tesa verso l’alto e carica di simbologia con una duplice interpretazione. Ed è proprio in questo doppio significato gestuale: la mano dello studente alzata al cielo che stringe il goliardo nell’intonare l’inno del Gaudeamus, e quella dalla “lettura” più ribelle e irriverente dal comune significato che si racchiude quell’ideale romantico proprio della Goliardia. La volontà di essere liberi.
Dal cappello, placcato in oro, pendono 7 ciondoli. Rappresentano i valori della goliardia senese: bacco, tabacco, venere, il teatro, la battaglia di Curtatone e Montanara del 1848 durante la prima guerra d’indipendenza italiana e alla quale prese parte un battaglione di studenti e docenti universitari, lo stemma dell’Ateneo senese e, infine, un barbero che sarà dipinto, dopo i due Palii con i colori della Contrada che vincerà il Masgalano.
La scultura è retta da un piedistallo in marmo nero e bianco, simboleggia la Balzana, lo stemma di Siena, appoggiato, a sua volta, su una base che raffigura Piazza del Campo anch’essa bagnata nell’argento.
Il Masgalano di Mortet è un lavoro che punta a stuzzicare l’immaginazione di chi osserva questa opera portandolo a domandarsi quale sia il vero e più profondo significato di quella mano e del gesto che compie. E con il conseguente e inevitabile risultato di stimolare un dibattito, un confronto fatto anche e soprattutto di ilarità e ironia, lo stesso che da anni vive e rivive nella goliardia delle Feriae Matricularum, e che ci ricorda quanto un sorriso possa essere un importante strumento di rottura, capace di scuotere le menti di tutti.
Signor Sindaco, Onorando Rettore del Magistrato delle Contrade
Onorandi Priori, Autorità tutte
Senesi e Contradaioli
Il 29 Maggio del 1848 un manipolo di studenti senesi, con eroica virtù ed invincibil coraggio, si sacrificava in nome della libertà sui campi di Curtatone e Montanara. Da quella battaglia arriva un messaggio di cui noi studenti siamo ancora gli orgogliosi custodi: ci si può spezzare, ma non ci si deve piegare.
Per questo, per noi Goliardi Senesi, è oggi un grande onore far parte di un momento così bello della nostra città: il giorno in cui tutto ricomincia.
E’ per noi un grande orgoglio poter offrire quest’opera alla contrada che si sarà distinta per eleganza e abilità, grazie al lavoro delle tante persone che per tutto l’anno preparano con cura e amore la propria comparsa.
Poter donare il Masgalano è l’occasione migliore per testimoniare quel legame che dal 1945 unisce indissolubilmente le Feriae Matricularum e le Contrade: tantissimi sono i senesi che sono affogati nel lago di Gaspero e poi hanno scritto la storia del Palio.
Vorrei quindi ringraziare chi ha reso tutto questo possibile, ognuno contribuendo a modo suo, e il Comune di Siena per averci concesso quest’onore.
Non c’è bisogno di essere bravi in matematica per capire un concetto semplice: l’infinito, per quanto lo si possa dividere, resta sempre infinito. E se il nostro amore per la Contrada è infinito, non significa che debba essere un amore esclusivo o che ci precluda di amare con la stessa intensità anche qualcos’altro. Infatti amiamo la Contrada e amiamo le Feriae.
Ci siamo concessi, da veri goduriosi, due infiniti invece di uno solo.
Due amori che vivono entrambi delle stesse emozioni, della stessa tenacia e di quella spensieratezza che da sempre rende tutti i contradaioli liberi.
Con questa opera di Mortet dunque abbiamo voluto celebrare questo senso di Libertà, dando il messaggio più goliardico che potevamo mandare dopo una pandemia: mettiamoci alle spalle quello che è successo in questi anni così difficili per tutti, mandiamo a quel paese tutto il resto e riprendiamoci le emozioni della nostra Festa.
Perché il Palio è il nostro modo di mandare a quel paese tutte le difficoltà e i giorni tristi, i dissapori e le paure. Il Palio ci fa dormire poco e sconvolge i nostri piani, ci fa sentire vivi e ci emoziona, regalandoci momenti indelebili da custodire gelosamente dentro di noi.
Viviamolo dunque come deve essere vissuto; godendoci il momento, consapevoli che camminiamo sulle spalle dei giganti del passato e abbiamo lo sguardo proiettato sul futuro.
Ma che, come ci ha insegnato tutta questa storia, abbiamo la fortuna di poter vivere solo il presente: dunque godiamocelo e cogliamone ogni attimo.
GAUDEAMUS IGITUR, perché sono tornati i brividi e i canti di gioia, i rintocchi e gli attimi infiniti.
Sono tornati tutti i nostri colori.
È tornata la nostra Festa!
Presentazione del Drappellone di Emma Sergeant per il Palio del 2 luglio 2022
Di Duccio Balestracci
Emma Sergeant, inglese, è, si può dire, figlia d’arte; nel senso primo del termine, perché la sua è una famiglia di artisti, ma anche nel senso che è figlia, per così dire, d’arte di una cultura british di lungo corso, fatta di un mix di eleganza, tradizione, consapevolezza delle proprie radici e, al tempo stesso, di curiosità, anticonformismo, voglia di conoscere, richiamo di un altro e di un altrove.
Nella sua formazione c’è (e non è un epifenomeno né un passatempo, ma un’adesione empatica quale noi senesi conosciamo benissimo) il britannicissimo amore per il cavallo. E non è un caso se questo animale finisce per essere uno dei soggetti più frequentati dalla pittrice. Nei suoi quadri, il cavallo è, sovente, raffigurato di muso, ma, molto spesso, il nobile animale assume un’imponenza quasi monumentalizzata dalla postura ferma e dalla tridimensionalizzazione data dalle sfumature, dai chiaroscuri, dal gioco dei grigi (soprattutto nelle immagini in bianco e nero ) che rinvia ai destrieri raffigurati a Mantova nel Palazzo Te da Giulio Romano: quei cavalli della razza Gonzaga, imbattibili nei palii italiani del Rinascimento.
Autrice di ritratti fortemente materici in cui le pennellate scolpiscono le espressioni come fossero colpi di scalpello, Emma Sergeant, la sua vita e i suoi stilemi, sono, però, ben presto risucchiati dall’esotico: appena venticinquenne viaggia in Afganistan, una terra della quale cattura colori e volti resi come di deità pagane; viaggia in Africa subendo la fascinazione di vestimenti dall’iperbolico cromatismo, e di espressioni ieratiche, impenetrabili, talune quasi da sembrare in trance sciamanica.
Non finisce mai di sfidare se stessa: si cimenta con la dimensione ipertrofica nel ciclo dei delfini azzurri, opere talmente grandi da risultare difficoltosissime da spostare; si addentra in un filone al limite del metafisico: i clown in abiti e situazioni sceniche improbabili e inquietanti; quasi di regola dis-centrati (come moltissime altre sue figure: inclusi alcuni ritratti) quasi che il centro euclideo fosse, nella sua mente, un irritante inchiodamento che castra la libertà della figura, alla quale, invece, si vuol lasciare la scelta di cercarsi la porzione di scena in cui si sente maggiormente a suo agio o dalla quale, comunque, riesce meglio a comunicare l’inquieto animo di chi, quella figura, ha realizzato.
E il tutto, sempre adattando le tecniche agli stili e ai soggetti, dalla tecnica mista tempera/acquerello a quelle rinascimentali, al bianco e nero. Chi voglia guardarsi la serie dei ritratti realizzati in carcere, quelle figure in cui il dramma e la sofferenza emergono senza un briciolo di retorica, né di pietismo, né di zuccherosa compassione, chi abbia voglia di guardarsele – dicevo – non potrà fare a meno di restare colpito dalla intensità di quei volti e da un tratto grafico in cui (in questo come in altri casi) le due dimensioni del foglio esplodono e – non tanto coinvolgono – ma proprio risucchiano l’osservatore.
Con Siena Emma Sergeant ha un rapporto di lungo corso: in un’intervista, dichiara che questa nostra città la intriga, che la coinvolge la sua gente piena di passione. I pezzi più importanti della mia vita – dice – si riassumono in Siena. Si “riassumono”. Attenzione al verbo usato, perché non è casuale: quando in un luogo si “riassume” la vita (almeno quella rappresenta dagli elementi esistenziali, psicologici ed emotivi più importanti) vuol dire che quel luogo non è solo un bel posto da visitare o, perché no?, da viverci più o meno a lungo, ma è ciò che un grande scrittore libico, Hisham Matar, ha reso (e proprio parlando di Siena) come un “un punto di approdo”.
E la Sergeant questo punto di approdo lo ha trovato, anche lei, in questa città, nella sua gente e nell’espressione principale dell’una e dell’altra: la Contrada. Per la Tartuca, nel 2018, realizza una mostra di sue opere (in quello scenario unico che è il museo di quella Contrada) “Touch the Spirit”. Per questa occasione la Sergeant mette in esposizione, fra le altre opere, un trittico, la cui storia riassume alla perfezione il suo impatto folgorante con Siena e con il Palio. Ne trovate la storia su YouTube, se vi interessa, ma ve la riassumo, anche se rozzamente e me ne scuso. Quest’opera, dice l’artista, sapeva già il suo destino prima che lo sapessi io. In origine era la raffigurazione di un cavallo che la impegnava in cerca della sua definizione che faticava, però, a realizzarsi. Questo quadro, dice, non voleva lasciarmi. Poi un amico, che conosce bene la realtà paliesca senese, le suggerisce di venire a Siena e di vedere il Palio. E qui il quadro trova, anch’esso, il suo “punto di approdo”. Diviene un trittico quasi medievale, composto da due cavalli laterali che, come santi laici, accompagnano l’icona centrale in cui, al posto di un’immagine sacra, c’è un personaggio con la montura della Contrada. Medioevo, contemporaneità, sacralità laicizzata (posso dire neopaganizzata?), assunzione consapevole dell’importanza dei soggetti rappresentati, ma senza alcuna scontata retorica da parata.
Ditemi voi se una persona così ha capito o no Siena, il Palio, la sua gente e l’anima collettiva di questa città.
E veniamo, pertanto, al Drappellone di questa sera.
Un intellettuale non può accontentarsi di conoscere una cultura sola (sennò non è un intellettuale), ma, le culture con le quali viene in contatto, può legittimamente scegliere se mescidarle e rifonderle in una cultura nuova tutta sua, personale, oppure farle convivere, ciascuna mantenendo la sua cifra, in un contesto ibrido che, da questa dialettica convivenza in cui nessuno perde niente, ma tutti entrano in empatia con l’alterità, genera un vortice di sensazioni, di reazioni, di stimoli.
Emma Sergeant fa esattamente questo, e tutte le anime che abbiamo fin qui visto le fa convivere nel suo drappellone in cui la complessità e l’ibridazione scomponibile che denuncia le cifre d’origine, sono espresse in una pittura tutta cromaticamente giocata sui toni del grigio, del nero e del rossastro, un rosso-mattone “sporcato”, che si ritrova a piene mani nelle immagini “africane” e “asiatiche” di Emma. Quel rosso che crea, con le sue sotto-gradazioni cromatiche, il fascino dei copricapi e dei mantelli con i quali la pittrice “veste” le sue figure più elaborate e sontuose della serie di pitture “tribal”.
Il nero e il grigio, a loro volta, altro non sono che citazioni della tecnica che Sergeant padroneggia con maestria.
Le figure-chiave danno vita ad un co-protagonismo: il muso del cavallo in primissimo piano sfuma, senza che quasi si avvertano i confini fra un’icona e l’altra, nell’immagine della Madonna in posizione, ancora una volta, dis-centrata, e le due figure, così, fondono non solo i “segni”, ma le anime del lavoro della pittrice.
Analizziamole una per una.
Il cavallo.
Come si è detto, è un soggetto usuale delle pitture dell’artista, e la sua presenza nel drappellone non è una ammiccante strizzata d’occhio al Palio senese, ma una dichiarazione di adesione al diffuso e condiviso amore per questo animale che la fa emozionare esattamente come si emoziona ognuno di noi, senese. Ecco perché il cavallo è il vero protagonista del drappellone, con il suo muso imponente che entra in contatto fisico con gli stemmi di alcune contrade, sfiorate con la criniera o con le vibrisse, quasi a volersi fare largo, insofferente di uno spazio insufficiente per la sua maestosità, e alla ricerca della collocazione ideale nell’impaginato.
La Madonna.
Quella di Emma Sergeant è una Madonna fortemente materica il cui volto (che ha tratti somatici significativamente vicini al volto di Emma Sergeant, tanto da chiederci se l’artista abbia voluto immedesimarsi, con un atto di amore, con la figura più importante di ogni Drappellone: quella figura che è dante causa del Palio stesso e che riassume in sé l’amore per Siena e la sua festa che i Senesi da lei invocano, e che l’artista, con questa immedesimazione, attesta per la città e le sue Contrade, se non “protette”, di certo da lei avvolte in un abbraccio) il cui volto, dicevo, risente dei richiami che l’artista avverte da altre, già evocate, culture, forse perfino da altre epoche che sembrano convocarla, perché la faccia della Madonna ha il sentore di altre voci, altre stanze. La pittrice ha, infatti, dichiarato che si è posta la domanda di come rendere un volto che può essere interpretato tradizionalmente come la stereotipata figura da (alla lettera) santino.
Legittimo, ma banale.
Oppure, quella stessa immagine, può essere resa (come spesso è stato fatto) nella cifra della quotidianità, totalmente a-sacralizzata, come di una donna qualsiasi che si incontra per le scale o per strada.
Legittimo anche questo, ma originale le prime volte; ripetitivo in quelle successive.
Oppure.
Oppure, come si chiede la pittrice stessa, può essere resa con una cifra di deità sumerica? piena di sacralità non scontata, ma ugualmente intensa? può crearsi in questo modo una liaison non scontata, né già vista, fra il divino e l’umano?
Se questa era la domanda cruciale che l’autrice si è posta, credo di poter dire che la sintesi operata è stata felice. L’immagine della Madonna, è, infatti, resa con una pittura che “scava” la figura, che la muove e la rende poco meno che tridimensionale, convocando nella bidimensionalità della pittura la volumetria della scultura. Una “scultura” dipinta che delinea un volto che pare uscito dalla bottega di uno scultore del Rinascimento che abbia gli occhi volti all’appena rinata classicità, con i suoi tratti decisi, ma dolci e armonici; una “scultura” dipinta che rende un’immagine di Madonna al tempo stesso piena di sacro, ma priva di aureole, nimbi o altri facilmente riconoscibili attributi di dimensione metafisica, con il volto e gli occhi assorti in uno stato d’animo sospeso, quasi onirico o di trance, addolcito da una forma di serena piega delle labbra, citazione di un appena accennato sorriso.
Una sorta di storiola a latere, in alto a destra, di tipico gusto medievale, presenta la sintesi icastica dell’intera narrazione: due cavalli con i loro fantini si contendono la vittoria sullo sfondo di un Palazzo Comunale e di una Torre del Mangia appena allusi. Il tutto in un’aura di trasognato bilanciamento fra immagine realistica e traduzione evocata e sognata del momento clou del Palio stesso.
Un ruolo fondamentale, in questo drappellone, è, poi, riservato all’araldica, elemento iconografico che la Sergeant (da brava inglese) maneggia con tutta l’attenzione che ad esso attribuisce un retaggio culturale, come quello britannico, che vede nello stemma la prima carta di identità di un soggetto. E la carta di identità reclama una resa non approssimativa, ma fedele fino al dettaglio: così gli stemmi (talvolta, in altri Drappelloni, solo allusi, reinterpretati, citati) hanno un ruolo, anch’essi, di protagonisti nell’impaginato di questo Drappellone, resi nelle forme rigorosamente ufficiali e canonizzate nelle quali ciascuna Contrada inscrive il suo simbolo. Del resto, perfino nel piccolo drappellone del Palio dei Ragazzi del Valdimontone, dipinto anch’esso dalla Sergeant, che presentava forme di pre-citazione di questo fratello maggiore che stasera abbiamo accanto a noi, anche in quello – dicevo – gli stemmi avevano un ruolo molto evidenziato nell’impaginato, e anche lì erano resi con un rigore filologico non comune. Perfino gli stemmi dei Terzi cittadini (che non di rado ricevono un’attenzione a dir poco distratta da parte dei pittori) hanno, invece, in quest’opera un’evidenza marcata.
Emma Sergeant ci ha dato un’opera niente affatto scontata; ha raggiunto un risultato che è di apparente semplicità, ma che, come molto spesso capita per le cose che sembrano “semplici”, cela, nella sua genesi, nei suoi cromosomi costruttivi, nella sua intelligente riflessione generativa una complessità che sgomenta. Fra una settimana, una felice Contrada potrà gioire, ovviamente, prima di tutto per aver trionfato, ma, in misura non minore, anche per poter accogliere nel suo Museo un grande Drappellone.
presentazione del Masgalano 2022 – Giampiero Cito
IL DITO DEL GIULLARE
E’ con grande orgoglio che mi alzo per presentare il Masgalano offerto dai Goliardi di Siena in questo luogo magico che accoglie e protegge i Barberi prima della battaglia e dove si trova la porta del Teatro dei Rinnovati, che ha visto tanti di noi calcare il palcoscenico dell’Operetta.
Dante Mortet è un artista che ama definirsi “artigiano”. L’Artigiano è qualcuno che adopra le proprie mani per restituire al mondo il frutto di un lavoro che possa far assumere agli oggetti un senso e un valore che si avvicinino a quelli di un’opera d’arte.
Il rapporto tra Dante e i Goliardi inizia nel marzo del 2020, proprio in mezzo a quel gran bailamme che ha portato a rendere impossibile il perpetuarsi della sacra ritualità del Palio, che ci ha condannati ad una prigionia forzata, che ha tappato le nostre bocche e mascherato i nostri volti, mutilandoci del bene più prezioso dopo quello della Vita: la Libertà che, come scrisse il nostro Roberto Ricci, “è un cavallo che scalpita dentro ogni cuor, anche quello più timido”.
A questo artigiano, che usa le mani non solo per creare l’opera ma le eleva a protagoniste dell’opera stessa, i Goliardi hanno chiesto di rappresentare una mano di argento che stringe un goliardo di bronzo (come le loro facce) e che, con un gesto derisorio e irriverente, mandasse a quel paese tutto quello che stava accadendo a tutti noi, anche e soprattutto chi ci diceva di ripetere a memoria lo sciocco mantra: “Andrà tutto bene!”.
Perché non stava andando tutto bene per niente, per la miseria!
Deridere con irriverenza.
Se andiamo a scavare sotto la patina della superficialità e indaghiamo sul loro significato, queste due parole assumono tutto un altro, alto valore. “De-ridere” significa “ridere per mezzo di un’azione”, l’azione è stata quella di chiedere al Primo Cittadino di prestare la sua mano, dalla quale è stato fatto il calco. I Goliardi hanno chiesto, per burla, una mano al Sindaco perché il significato della parola irriverenza è proprio “non fare le riverenze”, non inchinarsi di fronte a nessuno.
Il motto del Principe Michele Rubini è infatti: “Frangar, non flectar”.
E’ il ruolo dello Zanni, di Arlecchino, del Giullare di Corte che, per amore di battuta, accetta il rischio di venire decapitato dal potente di turno.
“Sire, si provi questo abito che solo le menti eccelse riescono a vedere…”
In tutte le corti ci sono i sovrani, ci sono i manutengoli, ci sono i lacché e poi ci sono i giullari di corte. Il Giullare finge di inchinarsi e poi colpisce. Come Ciranò.
Ecco, i Goliardi sono il Giullare di questa nostra Città, che amano come si ama una Mamma, capaci di dire da sempre con coraggio che il Re è nudo, chiunque sia il Re. Perché la Goliardia è coerentemente trasversale: esistono Goliardi di destra, di sinistra e di centro. E mescolandosi, abbracciandosi, attraverso l’amicizia vera che si crea in quegli anni beati, può venire fuori che i goliardi di destra abbiano idee di sinistra, che i goliardi di sinistra abbiano elucubrazioni di destra e che i goliardi di centro diventino dei grandi bestemmiatori.
Il Goliardo è un giullare, il Goliardo è un satiro, metà uomo e metà bestia, devoto al Dio Bacco e difensore del superfluo. Sia benedetto chi difende il superfluo, perché se dovessimo imporci di lasciare in vita soltanto ciò che quelli bravi definiscono “essenziale” non ci sarebbe la Musica, non ci sarebbe la Poesia, non ci sarebbe il Vino, non ci sarebbe la trippa la mattina della tratta o i bomboloni per le Prove di Notte, non ci sarebbero neanche la Prove di Notte, non ci sarebbe la Passeggiata Storica e quindi neanche il Masgalano. Forse non ci sarebbe neanche il Palio, che per tutti noi è la più irrinunciabile ed essenziale tra le cose superflue.
Quindi, siccome per noi Goliardi non c’è niente di più serio di uno scherzo, accettate questo premio come il messaggio degli studenti che, proprio come Arlecchino, si confessano burlando.
Cari studenti, con questa mano indicate a noi vecchi falliti, che siamo stati capaci soltanto di rubarvi il futuro, la strada dove dobbiamo andare. Ma ricordatevi che a 22 anni i Beatles erano già i Beatles e che alla mia età Mozart era bell’e morto da 11 anni. Il tempo di fare qualcosa di grandioso è ora. Il Futuro è nelle vostre mani, non sprecatelo come abbiamo fatto noi, altrimenti vi meriterete anche voi di essere mandati a quel paese.
Concludo dicendo che la più bella delle canzoni goliardiche, il Gaudeamus, ci spiega che abbiamo a disposizione una vita sola e che la gioventù è quell’attimo breve nel quale si deve godere nel dare un senso a tutto quello che faremo da lì in poi, perché in fondo alla nostra vita ci aspetta una Signora ineluttabile che non risparmia nessuno. Godete quindi il Qui e l’Adesso, finché siete giovani e cercate di portare con voi questo insegnamento anche quando giovani non lo sarete più. Ricordatevi che nessuno si salva.
Nemini parcetur.
Giampiero Cito, detto Tagliatella Balia 1998