Nei giorni scorsi, sono stata distratta da molte cose dal sapore piuttosto negativo. La televisione ha così assurto al ruolo di giullare di corte: avevo bisogno di storie che non mi facessero intristire o riflettere troppo. Avevo bisogno di leggerezza.
Scartando quei programmi che annullano totalmente capacità di discernimento e interesse nel prossimo, ho avuto non poche difficoltà a trovare un film o una serie televisiva che rispondesse alle mie esigenze.
Le smart TV sono scatole piene di tutto. E a volte il tutto è niente: una moltiplicazione di possibilità che ti fa perdere il senso di quello che stavi facendo, di ciò che stavi cercando.
Ho iniziato con “Euphoria”: la continuerò e ve ne parlerò, ma non adesso: mi ha turbata (non solo perché non ho più sedici anni). Riporto alcune righe presenti nella descrizione della serie tv su Wikipedia: “I ragazzi esplorano il proprio mondo fatto di droghe, sesso, traumi, social media, amore e amicizia… la seconda serie più vista su HBO dopo il Trono di Spade”. Tutto giusto, ma manca il senso di un telefilm che a me ha ricordato in qualche modo il libro “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”: l’insicurezza dell’adolescenza che ti fa diventare preda, carnefice, drogato; la necessità di appartenere, di sentirsi parte di qualcosa per potersi abbandonare e condividere; un baratto continuo tra benessere e corpo violato, accettazione e sfaldamento di sé.
Quindi ho proseguito. Ingannata dalla dicitura “commedia”, ho iniziato un paio di film recentissimi: “Omicidio a Los Angeles” con Mel Gibson, titolo originale “Last Looks”: zero risate (ho preferito di gran lunga “Fatman”). E “The Adam Project” con Ryan Reynolds, Mark Ruffalo, Jennifer Garner. Qui il sarcasmo è assicurato: forse solo nel 10/20 % dei casi Ryan Reynolds non ha un copione ironico.
Non convinta, mi sono spostata verso il Giappone iniziando “Drive My Car” di Ryûsuke Hamaguchi, adattamento cinematografico dell’omonimo racconto di Haruki Murakami (contenuto nella raccolta “Uomini senza donne”): una pellicola fatta di parole da ascoltare e guardare con (santa) pazienza. Non è mica un film da niente: ha vinto il Prix du scénario al 74º Festival di Cannes, il Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e il BAFTA per il miglior film di lingua non inglese, ha anche ricevuto 4 candidature ai premi Oscar, tra cui quella nella categoria “Miglior Film”. Non ero in forma per un’opera complessa di circa 2 ore e 52 minuti in cui o più semplicemente – attenzione allerta spoiler – non ero dell’umore giusto per un incidente, i tradimenti della moglie, un glaucoma, la morte prematura dell’unica figlia, la morte improvvisa della moglie: tutto nei primi 35/40 minuti. Ho spento. Ma solo momentaneamente perché dietro un dramma così lento si nasconde di sicuro qualcos’altro tra la pluralità dei racconti di Murakami, l’erotismo delle parole e dei corpi, e Cechov che viene detto a voce alta, letto, recitato mentre un puntino rosso, muovendosi, diventa auto, diventa una Saab turbo dal colore rosso, diventa racconto.
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