«Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità», queste le parole scelte da Benedetto Croce per descrivere “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, best e long seller scritto da Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, giornalista e scrittore.
Il libro venne pubblicato interamente per la prima volta a Firenze nel febbraio 1883 ed è stato tradotto in oltre 260 lingue. Questo breve articolo, però, non è dedicato alla storia di uno dei più noti capolavori letterari italiani al mondo, ma all’interpretazione che ne ha dato Guillermo Del Toro il quale, insieme a Mark Gustafson, ne ha diretto il film di animazione “Guillermo del Toro’s Pinocchio” o, più semplicemente, “Pinocchio”.
Dopo molti anni di lavorazione, questa fiaba “dark” ha trovato una distribuzione nelle sale cinematografiche e, adesso, è anche disponibile su Netflix. Realizzata in stop motion, in italiano passo a uno, (tecnica di animazione che, anziché il disegno eseguito a mano, usa oggetti inanimati spostati e fotografati a ogni cambio di posizione), “Pinocchio” è un film ambientato al tempo del fascismo, e sebbene Del Toro tradisca in molti punti il romanzo di Collodi, il risultato finale è un omaggio ai temi centrali, fondamentali per lo scrittore, senza mai cadere nella retorica o in pedanti moralismi.
Una delle scelte più importanti del regista è stata quella di incentrare il film sul rapporto tra Geppetto e Pinocchio a partire dalla tragedia vissuta dal falegname, cioè dalla morte del figlio Carlo (riferimento a Collodi?) per l’esplosione di una bomba.
In tutte le trasposizioni del romanzo, infatti, questa perdita non viene messa in scena. Del Toro, invece, sceglie di mostrare e umanizzare il dolore di un padre rimasto solo e che, non appena viene travolto dall’energia di un nuovo “figlio”, pretende che questo “burattino” diventi la copia – se non addirittura che si trasformi – in Carlo. Sbagliando, perché genitori e figli sono “imperfetti” ma unici.
I personaggi e i punti salienti – la Fatina, la Volpe, la Balena, il Grillo parlante, il naso che si allunga a ogni bugia, lo studio che annoia – ci sono tutti, ma sono stati trasformati, reinventati, per una nuova costruzione di senso.
Il significato di questo “Pinocchio” è forte: ogni essere umano è unico, omologarsi non è proprio una gran cosa; la dimensione del male, nella vita, è una costante da contrastare con la gentilezza e, infine, ci vuole tempo per capire e maturare, per accettar(si), per crescere.
La fotografia è stata curata da Frank Passingham; le musiche (necessarie per catturare il pubblico dei giovanissimi attraverso il musical) sono di Alexandre Desplat e i testi di Roeben Katz. Tra le voci originali, cito Ewan McGregor che doppia “Sebastian, il Grillo”; Tilda Swinton, “Spirito del Bosco, Morte”; Cate Blanchette, “Spazzatura”; e John Turturro, “il dottore”.
Del regista messicano vorrei anche ricordare “La spina del diavolo” (2001) e “Il labirinto del fauno” (2006), pellicole “gothic” perfette per chi ama il genere; la sua passione per il dark fantasy e per i “mostri” è esplicita in quasi tutti i suoi lavori, che appunto sono caratterizzati da un forte legame tra fiabe e horror.
Del Toro è anche “fissato” con la ricerca della bellezza estetica o poetica.
Dal mio punto di vita, l’idea dell’oltretomba – presente in modo ironico anche in “Pinocchio” – e il simbolismo collegato al “potere” sono due item per i quali vale la pena approfondire le scelte artistiche del regista e produttore.
È suo anche “La forma dell’acqua – The Shape of Water” (2017) che ha ricevuto le lodi della critica e ha vinto il Leone d’oro alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e ben due Oscar nelle categorie “miglior regista” e “miglior film” (oltre a una candidatura per la migliore sceneggiatura originale). Forse solo su questo non sono proprio d’accordo…
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