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Rapina al caveau Securpol, arrestato il basista: è un pregiudicato poggibonsese

Il mosaico si va pian piano completando, un terzo uomo è stato sottoposto a fermo di indiziato di delitto per la rapina al caveau Securpol di Pian dell’Olmino del 2 aprile 2016. Si tratta del basista, un pregiudicato poggibonsese, che è stato incastrato da un’impronta digitale lasciata su una torcia utilizzata quella notte per la rapina.

Nei giorni immediatamente successivi all’episodio criminoso, dall’osservazione delle immagini del sistema di videosorveglianza interno, i Militari dell’Arma avevano tratto una pessima impressione. Si comprendeva come quella banda di professionisti fosse venuta da lontano, per colpire e rapidamente sparire, dopo un’incursione perentoria e assolutamente imprevedibile nella serenità di questo territorio. Quei personaggi non utilizzavano telefonini cellulari ma radio ricetrasmittenti, tutti indossavano guanti ed erano pesantemente travisati con passamontagna. Fra i casi analoghi occorsi in molte località del territorio nazionale, pochissimi erano stati scoperti in passato, proprio perché quella banda dimostrava di saper bene come non lasciare tracce. Ma la perseveranza dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Siena sotto la direzione del Colonnello Giorgio Manca, Comandante Provinciale, e dei magistrati inquirenti, il Procuratore Salvatore Vitello e il pubblico ministero Aldo Natalini, alla fine è stata premiata. Ogni strumento investigativo è stato utilizzato e, se i primi due fermati pugliesi, a corollario di indagini molto complesse sono stati individuati anche con l’utilizzo della prova principe, quella del DNA, con ancora maggiore dovizia di elementi, il terzo, un basista locale, è stato coinvolto invece da una nettissima impronta digitale, Il 2 aprile 2016, attorno alle ore 02.00, in località Pian dell’Olmino, (Colle Val d’Elsa), un nutrito commando di malfattori, almeno venti, travisati da passamontagna e armati di pistole e kalashnikov, dava l’assalto al caveau della società Securpol, all’interno del quale si custodivano in quel momento circa 12 milioni di euro di proprietà dell’amministrazione delle Poste Italiane. Con un enorme escavatore rubato dai campi limitrofi prima fu divelto il cancello metallico della ditta, poi rimossi i furgoni incolonnati, che venivano spostati come giocattoli di plastica e fatti precipitare oltre il muro di confine dal lato opposto. L’escavatore prendeva quindi a colpire il primo piano dello stabile, abbattendo con violenza inaudita tetto e mura, per poter poi andare a ricercare lo spazio, protetto da solido cemento armato, collocato a pianterreno e destinato quale caveau. Mentre i rapinatori continuavano a muoversi in maniera concitata attorno all’obbiettivo, un paio di essi, probabilmente i capi, mantenevano i contatti con altri complici lasciati di vedetta. Utilizzavano radio ricetrasmittenti. La colossale benna del mezzo cingolato prendeva quindi a colpire dall’alto verso il basso il primo piano dello stabile, nel tentativo di aprire un varco nelle solidissime mura in cemento armato del camera destinata alla custodia del denaro. Il primo varco aperto si rivelava errato e comportava una probabilmente imprevista perdita di tempo. Un secondo più piccolo varco nel caveau veniva finalmente utilizzato, un individuo dalla corporatura molto esile si calava fra spuntoni d’acciaio e resti di cemento, ma doveva desistere quasi immediatamente, perché veniva lanciato l’allarme e ordinata una prudente ritirata. I malviventi riuscivano a portar via solo circa 1700 euro in moneta, prelevati negli uffici della Securpol. In quel momento giungevano nelle vicinanze alcune autoradio della Compagnia Carabinieri di Poggibonsi, ma venivano bloccate a distanza di sicurezza dai malviventi che, tramite un’ulteriore squadra a ciò destinata, avevano bloccato il transito sulle sei strade d’accesso all’area del crimine, mediante l’abbattimento di grossi alberi. Dopo pochi minuti di fuga, avendo abbandonato in una radura fra gli alberi, le quattro autovetture che risulteranno poi essere state rubate nei giorni precedenti in aree di confine fra Puglia e Basilicata, i rapinatori montavano su un furgone che veniva intercettato da una autoradio a pochi km di distanza dal luogo della rapina e cominciavano a sparare all’indirizzo dei militari che rispondevano al fuoco. Né i Carabinieri operanti, né la loro autoradio venivano miracolosamente attinti dai colpi esplosi, mentre il furgone in fuga veniva colpito di striscio da un solo colpo del mitra dei militari e si allontanava a folle velocità. La gazzella non poteva proseguire la corsa, perché nella retromarcia era rimasta danneggiata. Il furgone in fuga dopo circa un paio di minuti andava a incrociare su un rettilineo un’autovettura con colori d’istituto della Stazione Carabinieri di Castellina in Chianti. I rapinatori esplodevano sull’asfalto alcuni colpi di kalashnikov, alcuni dei quali rimbalzavano luminosi davanti ai due Militari che accorrevano sul luogo della rapina. La raffica avrebbe potuto ucciderli. Il furgone in fuga sfuggiva al successivo inseguimento della pattuglia che aveva nel frattempo invertito la direzione di marcia, perdendo però attimi preziosi. Nei giorni successivi venivano rinvenute dapprima le quattro autovetture e poi i due furgoni utilizzati per la rapina e due sezioni investigazioni scientifiche dell’Arma potevano sbizzarrirsi nella raccolta di reperti dalle auto che, per l’immediata reazione dei carabinieri in quella notte, erano state solo parzialmente bonificate. Quei reperti sarebbero poi stati ampiamente analizzati dal RIS di Roma, con acquisizione di elementi che avrebbero corroborato tutte le altre acquisizioni investigative.

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